Permette di sapere se una
persona era presente o no sulla scena del crimine, di scagionare persone
accusate di reati, di identificare le vittime di catastrofi naturali o
verificare l’identità di persone scomparse. È il Dna: l’impronta genetica che
rende unico ciascuno di noi e la cui analisi facilita anche il lavoro degli
investigatori permettendo di risalire in modo inequivocabile al “proprietario”
della traccia biologica prelevata sulla scena del crimine. Il test del Dna
permette anche di escludere con certezza, così come è successo anche in alcuni
recenti casi di cronaca, la presenza di una persona, ad esempio in casi di
violenza sessuale. L’impronta biologica è infatti unica per ogni persona
(tranne per i gemelli omozigoti) e la sua analisi permette – con un dato
scientifico assolutamente inconfutabile – di dire se quel liquido o quella
cellula appartiene o no a una determinata persona. Le difficoltà nascono in
special modo quando si analizzano situazioni di violenze sessuali o omicidi in
cui i liquidi biologici possono essere mischiati. In poche parole sulla scena
del delitto c’è sempre una traccia: se è unica, può essere facilmente
confrontata con quella dell’imputato o del sospettato; se invece è mista la
certezza del risultato c’è, ma è più difficile da interpretare e da spiegare a
una giuria nel corso del dibattimento.
Nel caso, ad esempio, di una
violenza sessuale di gruppo, viene estratto una campione di liquido seminale
dove sono presenti più fluidi biologici; i vari punti del Dna analizzati
forniscono una sequenza di numeri da comparare con quella dei sospettati. Se
nelle 2 sequenze poste a confronto c’è anche un solo numero diverso (che
compare in una, ma non nell’altra) vuol dire che non è quella la persona che
stavamo cercando. In base a standard internazionali sono 16/17 i punti del Dna
analizzati per un sequenza totale di 32/34 numeri (2 valori per ogni punto).
Spiega ancora il biologo Biondo: «Per noi ogni punto analizzato permette di
lasciare nella lista dei sospettati solo il 10 per cento del totale. Questo
vuol dire che quando si hanno 10 punt punti analizzati quel Dna può
corrispondere solo a 1 persona su 10 miliardi». Quando è possibile invece
analizzare solo 6 punti del Dna il risultato non è utile all’identificazione:
può esserci solo la compatibilità.
MOZZICONI
DI SIGARETTA, SALIVA E SANGUE
Gli esami del Dna si possono
effettuare su campioni di sangue, saliva, liquido seminale, ossa, denti,
frammenti di pelle o di altri tessuti. Un mozzicone di sigaretta lasciato sul
luogo del delitto contiene abbastanza saliva da permettere l’esame. Ed è proprio
grazie alle analisi del Dna, effettuate sui tanti mozziconi di sigaretta
trovati sul monte che sovrasta l’autostrada A/29 Trapani-Palermo, che sono
stati incastrati gli esecutori della strage di Capaci. Le prove riconducevano a
Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera come artificieri del commando
mafioso che il 23 maggio del 1992 fece esplodere un’enorme carica di tritolo che
uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e 3 agenti della scorta.
Numerosi sono i progressi
fatti in questo campo nel corso degli anni e le moderne tecnologie, sempre più
sensibili, permettono oggi ai biologi esperti della polizia scientifica, e non
solo, di svolgere l’analisi anche su microtracce di liquido biologico dove
altri test forse fallirebbero. Una microtraccia lasciata su un minuscolo pezzo
di scotch ha permesso di confutare, ad esempio, la testimonianza di Angelo Izzo
nel caso del duplice omicidio di Maria Carmela Maiorano e della figlia
quattordicenne Valentina. Le donne furono uccise, legate con un nastro adesivo
e poi sotterrate in una villetta nei pressi di Ferrazzano, in provincia di
Campobasso, il 28 aprile 2005. Nella sala da pranzo, dove secondo gli
investigatori era stata uccisa la giovane ragazza, Izzo diceva di non esserci
mai entrato. Gli inquirenti non erano riusciti a trovare, in quel luogo,
impronte o altri reperti utili per fornire prove da usare durante il processo.
Furono trovati solamente alcuni piccoli pezzettini di nastro adesivo che
probabilmente l’assassino aveva staccato con la bocca e che gli erano rimasti
appiccicati al labbro. Il Dna estrapolato da quei microframmenti di scotch
corrispondeva a quello di Angelo Izzo e dimostrava che l’imputato in quella
stanza, a differenza di quanto affermava, ci era entrato. Se quei pezzetti di
scotch non fossero stati repertati, magari oggi confutare quella versione
sarebbe stata impossibile.
Sempre nel 2005 un altro
caso di omicidio fu risolto a Firenze grazie a delle piccolissime tracce di
sangue trovate sui vestiti dell’assassino. Si tratta dell’omicidio di Emanuela
Biagiotti trovata morta, accoltellata, all’interno del supermercato dove
lavorava. Dopo varie indagini i sospetti caddero su un collega della vittima:
Leonardo Tovoli. Nonostante l’uomo avesse lavato gli abiti che indossava, gli
investigatori riuscirono a trovare tra le fibre del tessuto dei pantaloni una
piccola traccia di sangue: l’analisi del Dna dimostrò che si trattava proprio
del sangue della vittima.
UN
CAPELLO PER L’OMICIDIO D’ANTONA
Ma anche la radice di un
solo capello può rivelare con esattezza il proprietario della traccia
biologica. Ed è proprio grazie ad un capello che le indagini sull’omicidio del
giuslavorista Massimo D’Antona arrivarono ad una svolta: sul luogo del delitto
c’era anche la brigatista Laura Proietti. In via Salaria, la mattina
dell’omicidio, era parcheggiato un furgone bianco sul cui sedile gli uomini
della Scientifica hanno trovato un capello; l’analisi del Dna chiarì subito che
apparteneva ad una donna. Pochi giorni più tardi quel risultato fu confrontato
con il Dna della Proietti estratto dalla saliva recuperata da un mozzicone di
sigaretta: erano gli stessi.
CROMOSOMA
Y E LEGAMI PARENTALI
Le ultime tecnologie
permettono anche di fare analisi specifiche sui Dna per capire se esiste una
relazione parentale di origine materna o paterna. Questa possibilità è stata
utilizzata nel caso dell’omicidio di Giuseppina Potenza, trovata morta sulla
spiaggia di Manfredonia nel 2004. In quell’occasione è stata utile la
professionalità del medico legale della Polizia di Stato che ha preso un
campione sulla superficie esterna della vittima che è servito a individuare il
Dna dell’ultima persona che aveva avuto un rapporto con la donna prima che morisse.
I sospettati erano tanti e per ridurre il campo è stata fatta un’analisi sul
cromosoma Y di questo Dna estratto per vedere se c’era un legame parentale con
la vittima. Il cromosoma Y viene, infatti, trasmesso di padre in figlio in
tutta la progenie maschile. In questo caso il cromosoma Y corrispondeva a
quello del padre di Giuseppina, ma il Dna non era il suo. Rimanevano “in gioco”
una decina di persone tra fratelli del padre, figli dei fratelli e cugini. Il
Dna trovato corrispondeva a quello di un cugino da parte del padre. Tutto
questo è ovviamente sempre possibile solo se i reperti e le cellule biologiche
sono integre. Il Dna si regge infatti su un’architettura formata da una
struttura centrale proteica la cui stabilità è fondamentale per mantenerne le
caratteristiche. Ma le alte temperature o i batteri possono intaccarlo,
cambiarne la struttura e spezzarlo. Se i punti di rottura del Dna sono quelli
che servono per le analisi non si ottiene alcun risultato. Se invece le parti
che servono per il test sono integre e conservate in modo corretto, è possibile
grazie alle moderne tecnologie ottenere buoni risultati anche su campioni di 20
anni fa. Per questo motivo nei laboratori della Scientifica della Polizia di
Stato i campioni di Dna, estratti e analizzati, vengono conservati in
frigoriferi a temperature che stanno all’incirca a 25 gradi sotto zero.
IDENTIFICARE
LE VITTIME DI DISASTRI NATURALI
C’è un gruppo di missione
composto da esperti della Polizia Scientifica, il Disastervictimidentification
(Dvi), che lavora in casi di catastrofi naturali per l’identificazione delle
vittime senza nome. Dopo lo tsunami che ha colpito la Thailandia (dove il
gruppo è riuscito a identificare ben 40 italiani) e l’attentato terroristico a
Sharm ElSheik, il Dvi ha applicato le sue sofisticate tecniche anche a L’Aquila
dopo il terremoto. Per dare un’identità ai corpi spesso martoriati dalla
macerie si procede con la ricerca di segni di riconoscimento, con il prelievo,
quando possibile, di impronte digitali o dentarie o con il prelievo di
materiale biologico per estrarre il profilo genetico della vittima.
Staff Progetto Art. 9
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