mercoledì 15 maggio 2013

DNA DEL COLPEVOLE



Permette di sapere se una persona era presente o no sulla scena del crimine, di scagionare persone accusate di reati, di identificare le vittime di catastrofi naturali o verificare l’identità di persone scomparse. È il Dna: l’impronta genetica che rende unico ciascuno di noi e la cui analisi facilita anche il lavoro degli investigatori permettendo di risalire in modo inequivocabile al “proprietario” della traccia biologica prelevata sulla scena del crimine. Il test del Dna permette anche di escludere con certezza, così come è successo anche in alcuni recenti casi di cronaca, la presenza di una persona, ad esempio in casi di violenza sessuale. L’impronta biologica è infatti unica per ogni persona (tranne per i gemelli omozigoti) e la sua analisi permette – con un dato scientifico assolutamente inconfutabile – di dire se quel liquido o quella cellula appartiene o no a una determinata persona. Le difficoltà nascono in special modo quando si analizzano situazioni di violenze sessuali o omicidi in cui i liquidi biologici possono essere mischiati. In poche parole sulla scena del delitto c’è sempre una traccia: se è unica, può essere facilmente confrontata con quella dell’imputato o del sospettato; se invece è mista la certezza del risultato c’è, ma è più difficile da interpretare e da spiegare a una giuria nel corso del dibattimento.
Nel caso, ad esempio, di una violenza sessuale di gruppo, viene estratto una campione di liquido seminale dove sono presenti più fluidi biologici; i vari punti del Dna analizzati forniscono una sequenza di numeri da comparare con quella dei sospettati. Se nelle 2 sequenze poste a confronto c’è anche un solo numero diverso (che compare in una, ma non nell’altra) vuol dire che non è quella la persona che stavamo cercando. In base a standard internazionali sono 16/17 i punti del Dna analizzati per un sequenza totale di 32/34 numeri (2 valori per ogni punto). Spiega ancora il biologo Biondo: «Per noi ogni punto analizzato permette di lasciare nella lista dei sospettati solo il 10 per cento del totale. Questo vuol dire che quando si hanno 10 punt punti analizzati quel Dna può corrispondere solo a 1 persona su 10 miliardi». Quando è possibile invece analizzare solo 6 punti del Dna il risultato non è utile all’identificazione: può esserci solo la compatibilità.
MOZZICONI DI SIGARETTA, SALIVA E SANGUE
Gli esami del Dna si possono effettuare su campioni di sangue, saliva, liquido seminale, ossa, denti, frammenti di pelle o di altri tessuti. Un mozzicone di sigaretta lasciato sul luogo del delitto contiene abbastanza saliva da permettere l’esame. Ed è proprio grazie alle analisi del Dna, effettuate sui tanti mozziconi di sigaretta trovati sul monte che sovrasta l’autostrada A/29 Trapani-Palermo, che sono stati incastrati gli esecutori della strage di Capaci. Le prove riconducevano a Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera come artificieri del commando mafioso che  il 23 maggio del 1992  fece esplodere un’enorme carica di tritolo che uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e 3 agenti della scorta.
Numerosi sono i progressi fatti in questo campo nel corso degli anni e le moderne tecnologie, sempre più sensibili, permettono oggi ai biologi esperti della polizia scientifica, e non solo, di svolgere l’analisi anche su microtracce di liquido biologico dove altri test forse fallirebbero. Una microtraccia lasciata su un minuscolo pezzo di scotch ha permesso di confutare, ad esempio, la testimonianza di Angelo Izzo nel caso del duplice omicidio di Maria Carmela Maiorano e della figlia quattordicenne Valentina. Le donne furono uccise, legate con un nastro adesivo e poi sotterrate in una villetta nei pressi di Ferrazzano, in provincia di Campobasso, il 28 aprile 2005. Nella sala da pranzo, dove secondo gli investigatori era stata uccisa la giovane ragazza, Izzo diceva di non esserci mai entrato. Gli inquirenti non erano riusciti a trovare, in quel luogo, impronte o altri reperti utili per fornire prove da usare durante il processo. Furono trovati solamente alcuni piccoli pezzettini di nastro adesivo che probabilmente l’assassino aveva staccato con la bocca e che gli erano rimasti appiccicati al labbro. Il Dna estrapolato da quei microframmenti di scotch corrispondeva a quello di Angelo Izzo e dimostrava che l’imputato in quella stanza, a differenza di quanto affermava, ci era entrato. Se quei pezzetti di scotch non fossero stati repertati, magari oggi confutare quella versione sarebbe stata impossibile.
Sempre nel 2005 un altro caso di omicidio fu risolto a Firenze grazie a delle piccolissime tracce di sangue trovate sui vestiti dell’assassino. Si tratta dell’omicidio di Emanuela Biagiotti trovata morta, accoltellata, all’interno del supermercato dove lavorava. Dopo varie indagini i sospetti caddero su un collega della vittima: Leonardo Tovoli. Nonostante l’uomo avesse lavato gli abiti che indossava, gli investigatori riuscirono a trovare tra le fibre del tessuto dei pantaloni una piccola traccia di sangue: l’analisi del Dna dimostrò che si trattava proprio del sangue della vittima.
UN CAPELLO PER L’OMICIDIO D’ANTONA
Ma anche la radice di un solo capello può rivelare con esattezza il proprietario della traccia biologica. Ed è proprio grazie ad un capello che le indagini sull’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona arrivarono ad una svolta: sul luogo del delitto c’era anche la brigatista Laura Proietti. In via Salaria, la mattina dell’omicidio, era parcheggiato un furgone bianco sul cui sedile gli uomini della Scientifica hanno trovato un capello; l’analisi del Dna chiarì subito che apparteneva ad una donna. Pochi giorni più tardi quel risultato fu confrontato con il Dna della Proietti estratto dalla saliva recuperata da un mozzicone di sigaretta: erano gli stessi.
CROMOSOMA Y E LEGAMI PARENTALI
Le ultime tecnologie permettono anche di fare analisi specifiche sui Dna per capire se esiste una relazione parentale di origine materna o paterna. Questa possibilità è stata utilizzata nel caso dell’omicidio di Giuseppina Potenza, trovata morta sulla spiaggia di Manfredonia nel 2004. In quell’occasione è stata utile la professionalità del medico legale della Polizia di Stato che ha preso un campione sulla superficie esterna della vittima che è servito a individuare il Dna dell’ultima persona che aveva avuto un rapporto con la donna prima che morisse. I sospettati erano tanti e per ridurre il campo è stata fatta un’analisi sul cromosoma Y di questo Dna estratto per vedere se c’era un legame parentale con la vittima. Il cromosoma Y viene, infatti, trasmesso di padre in figlio in tutta la progenie maschile. In questo caso il cromosoma Y corrispondeva a quello del padre di Giuseppina, ma il Dna non era il suo. Rimanevano “in gioco” una decina di persone tra fratelli del padre, figli dei fratelli e cugini. Il Dna trovato corrispondeva a quello di un cugino da parte del padre. Tutto questo è ovviamente sempre possibile solo se i reperti e le cellule biologiche sono integre. Il Dna si regge infatti su un’architettura formata da una struttura centrale proteica la cui stabilità è fondamentale per mantenerne le caratteristiche. Ma le alte temperature o i batteri possono intaccarlo, cambiarne la struttura e spezzarlo. Se i punti di rottura del Dna sono quelli che servono per le analisi non si ottiene alcun risultato. Se invece le parti che servono per il test sono integre e conservate in modo corretto, è possibile grazie alle moderne tecnologie ottenere buoni risultati anche su campioni di 20 anni fa. Per questo motivo nei laboratori della Scientifica della Polizia di Stato i campioni di Dna, estratti e analizzati, vengono conservati in frigoriferi a temperature che stanno all’incirca a 25 gradi sotto zero.
IDENTIFICARE LE VITTIME DI DISASTRI NATURALI
C’è un gruppo di missione composto da esperti della Polizia Scientifica, il Disastervictimidentification (Dvi), che lavora in casi di catastrofi naturali per l’identificazione delle vittime senza nome. Dopo lo tsunami che ha colpito la Thailandia (dove il gruppo è riuscito a identificare ben 40 italiani) e l’attentato terroristico a Sharm ElSheik, il Dvi ha applicato le sue sofisticate tecniche anche a L’Aquila dopo il terremoto. Per dare un’identità ai corpi spesso martoriati dalla macerie si procede con la ricerca di segni di riconoscimento, con il prelievo, quando possibile, di impronte digitali o dentarie o con il prelievo di materiale biologico per estrarre il profilo genetico della vittima.
Ricerca effettuata sul sito www.poliziadistato.it

Staff Progetto Art. 9

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